Nel 1886 fu inaugurata a Bedloe’s Island, alle porte di New York, la statua che oggi è il simbolo degli Stati Uniti. Ma l’ispirazione originale del progetto proveniva dall’Egitto
«Gli Stati Uniti presto celebreranno il centenario della propria indipendenza» recitava un annuncio pubblicato su tutti i giornali francesi la mattina del 28 settembre 1875. «Il grande evento, che avrà luogo il 4 luglio 1876, ci darà modo di festeggiare con i nostri amici nordamericani l’antica e sincera amicizia che unisce da tanto tempo le nostre nazioni […] In mezzo al porto di New York, in un’isola che appartiene all’Unione degli Stati, di fronte a Long Island, dove fu versato il primo sangue per l’indipendenza, sorgerà una statua colossale […] che rappresenterà la Libertà che illumina il mondo […] Il monumento sarà costruito da entrambe le nazioni […] Noi gentilmente offriremo la statua ai nostri amici nordamericani che, da parte loro, faranno fronte alle spese di costruzione del piedistallo». Così veniva presentata ai francesi quella che sarebbe diventata la statua della Libertà, oggi nota come il simbolo degli Stati Uniti, la dea benevola che accoglie gli stranieri in fuga da tirannide e povertà. Nell’annuncio, tuttavia, non si faceva parola di tutto ciò. La statua vi appariva come un regalo francese per il centenario della guerra che, tra il 1775 e il 1783, aveva reso le colonie inglesi d’America indipendenti dalla madrepatria.
La statua della Libertà è alta 46 metri, che diventano 93 se s’include il piedistallo.
Lo scambio di doni di tal fatta non è mai stato pratica comune tra le nazioni. Ma la statua che i francesi intendevano spedire a New York non sarebbe stata soltanto un omaggio agli Stati Uniti. La Francia di Luigi XVI aveva contribuito a finanziare la guerra di liberazione americana e aveva accompagnato il prestito con l’invio di uomini e armi. La statua era perciò anche un regalo che la Francia faceva a sé stessa per sottolineare il proprio ruolo nella liberazione degli Stati Uniti dall’Inghilterra.
Secondo una storia giunta ai nostri giorni, l’idea di costruire la statua sarebbe nata intorno a una tavola da pranzo. Il padrone di casa era lo storico del diritto Édouard de Laboulaye. I suoi modi erano eccentrici: girava per Parigi vestito come Benjamin Franklin, con le dita sporche d’inchiostro, redingote al ginocchio e capelli che sfioravano le spalle. Si racconta che una sera non precisata del 1865 Laboulaye avesse invitato Frédéric-Auguste Bartholdi, il futuro architetto della statua, e un certo numero di amici nella propria dimora estiva. Il discorso era caduto sui fatti recenti degli Stati Uniti d’America, dove gli stati del nord avevano da poco sconfitto quelli del sud e riunito il Paese in una solida federazione. Laboulaye aveva proposto di solennizzare l’evento regalando agli statunitensi un monumento per celebrare l’amicizia che li legava alla Francia.
Gli storici hanno sempre prestato fede a questa storia (che Bartholdi stesso diffuse quando ormai la statua era stata terminata ed era pronta a essere spedita negli Stati Uniti), senza tuttavia poterla dimostrare. Il problema ha che fare con alcuni vuoti misteriosi che caratterizzano le carte di Bartholdi, da sempre custodite nella casa di famiglia a Colmar, in Alsazia. La collezione, altrimenti completa, è priva dei documenti relativi agli anni della cena a casa di Laboulaye, come pure delle lettere che lo stesso Laboulaye, amico dell’architetto almeno dal 1857, gli aveva spedito prima e durante la costruzione della statua. Non sappiamo come e quando questi documenti siano spariti, ma la loro assenza, insieme al fatto che lo stesso Bartholdi abbia aspettato vent’anni prima di parlare delle origini del monumento, genera qualche sospetto.
Le origini del mistero sembrano trovarsi in Egitto, l’antica terra che custodiva il passaggio in India e che francesi e inglesi si contendevano senza tregua. Nel 1854, a soli ventidue anni, Bartholdi era partito da Marsiglia per Il Cairo. Nascosta la capigliatura corvina sotto un turbante, si era imbarcato su una dahabeah che risaliva il Nilo per ammirare monumenti e ritrarre volti. Al ritorno dall’Egitto, aveva dipinto contadine velate e scolpito statuette d’argento di musici e incantatori. Ma la sua vera passione erano i monumenti colossali.
Mai i tempi erano stati più favorevoli ai suoi gusti. Nel 1867 una grande manifestazione industriale aprì le porte a Parigi. Nel palazzo di ferro e vetro allestito sul campo di Marte i francesi diedero vita a una specie di metropoli universale in miniatura completa di acquari, fari e ascensori ad acqua. Padiglioni russi, spagnoli e cinesi ricreavano le meraviglie dei rispettivi Paesi per un pubblico curioso.
Niente, tuttavia, intrigò Bartholdi quanto la sezione egizia, dove un padiglione ospitava il plastico del canale che i francesi stavano per completare tra il Mediterraneo e il mar Rosso. Secondo l’ingegnere responsabile dei lavori, Ferdinand de Lesseps, il canale sarebbe diventato una cerniera del mondo, la scorciatoia tra l’ovest e l’est. E Bartholdi si mise in testa di glorificare l’impresa costruendo un faro alto come quelli delle esposizioni che illuminasse il golfo di Suez per le navi in arrivo dall’Oriente. Nel marzo del 1869 s’imbarcò quindi nuovamente per Il Cairo, questa volta per discutere il progetto con il viceré d’Egitto.
La contadina egizia
L’architetto portò con sé un modellino e due acquerelli di una donna formosa che indossava una veste da contadina, o fellah, così leggera da far intravedere i capezzoli. Nella mano sinistra reggeva una lanterna; un velo le copriva i capelli, sui quali era posata una corona da cui scaturivano raggi che illuminavano il golfo. Il titolo dell’opera era Egitto che illumina l’Asia.
A guardar bene, la statuetta di Bartholdi aveva ben poco di egiziano, fatta eccezione per le vesti. I suoi simboli evocavano una certa filosofia del progresso che si era diffusa in Francia sotto l’impatto delle ultime conquiste tecnologiche. L’estensione delle linee ferroviarie e la competizione con l’Inghilterra per il controllo del traffico transoceanico avevano indotto i francesi a preconizzare l’avvento di un mondo globalizzato, tenuto insieme da invenzioni tecnologiche. Al centro di questo mondo vi sarebbe stata la Francia, destinata a raggiungere i punti più remoti del pianeta, saldando la conoscenza occidentale con la bellezza orientale.
Vestita da egiziana e con la luce del progresso in mano, la personificazione dell’Egitto di Bartholdi era un chiaro tributo agli investimenti francesi a Suez. Il viceré non ne fu entusiasta. Avrebbe preferito una figura che esibisse qualche somiglianza in più con le contadine locali, spesso rappresentate in atteggiamento umile, magari con un’anfora in bilico sul capo. Ciononostante Bartholdi trovò la soluzione «meno attraente» e la ignorò.
Questa serie di sette terrecotte realizzate da Bartholdi mostra lo sviluppo dell’idea iniziale dello scultore
Un massone visionario
Alla vigilia del secondo viaggio in Egitto Bartholdi aveva ricevuto una proposta di lavoro, «un affare incerto, che poteva avere buone prospettive, ma anche cattive». Si trattava del progetto di Laboulaye, che Bartholdi avrebbe di lì a poco descritto come un monumento in onore dell’indipendenza statunitense. Se Laboulaye ne aveva parlato a Bartholdi già nel 1865, le sue richieste si erano fatte più pressanti tra il 1867 e il 1869. Perché? Secondo alcuni storici, Laboulaye intendeva celebrare l’abolizione della schiavitù seguita alla Guerra di secessione. Ma aveva dubbi su questo punto. Secondo lui, gli statunitensi «guardavano i neri con orrore e disgusto, negli stati liberi come nel Sud».
L’ammirazione di Laboulaye per gli Stati Uniti era di altra natura. Egli non perdonava agli inglesi di essersi impossessati delle colonie francesi d’America durante la Guerra dei sette anni. Gli Stati Uniti, diceva Laboulaye, erano la «terra promessa» dei francesi, il luogo nel quale essi potevano «solo sperare di tornare» dopo anni di attesa. Ma di quale ritorno si trattava? Un ritorno finanziario, che avrebbe permesso ai francesi d’investire nella nascente industria statunitense. Non a caso, la statua della Libertà sarebbe stata costruita con rame estratto da miniere del Michigan e della Norvegia controllate da compagnie francesi.
Laboulaye auspicava anche una sorta di rinascita spirituale della Francia in America. Aveva maturato questa aspettativa all’interno della massoneria, da sempre ritenuta custode di un sapere esclusivo destinato a una minoranza di eletti. Ma egli guardava a un futuro nel quale i segreti massonici sarebbero stati rivelati al popolo. Il luogo di questa rivelazione, diceva, sarebbero stati gli Stati Uniti, un Paese nel quale i primi coloni avevano portato «la torcia del Vangelo», pregato Dio «in libertà» e introdotto il rispetto della proprietà privata. È possibile che Laboulaye avesse condiviso le proprie convinzioni con Bartholdi prima che questi si mettesse al lavoro sulla statua egiziana. Tutto sommato la luce del progresso impugnata dalla fellah era presa in prestito dal repertorio massonico, dove il “portatore di torcia” simboleggiava il sole della rivelazione iniziatica. E gli Stati Uniti non erano forse il Paese nel quale le verità massoniche di Laboulaye (e di una certa massoneria francese, religiosa e conservatrice) si sarebbero rivelate al mondo?
La torcia e il braccio della statua esposti a Filadelfia nel 1876
Tornato a Parigi, Bartholdi non buttò i calchi egiziani. Si era confrontato con la madre Charlotte, per la quale «gli stessi principi non possono essere applicati in entrambi gli emisferi», ma non si era trovato d’accordo. Per lui, come per Laboulaye, la Francia era destinata a esercitare la propria influenza negli Stati Uniti come in Egitto. Il che significava che la stessa statuetta poteva essere utilizzata in entrambi i Paesi. Ecco perché Bartholdi aggiunse un unico, nuovo dettaglio alle fellah scolpite di ritorno dall’Egitto (nessuna delle quali recava il nome “Egitto” alla base): un coccio di vaso, simbolo romano di libertà. Forse Bartholdi aveva deciso di lusingare il viceré estendendo il significato della statua alla libertà dal lavoro forzato, che un suo editto aveva abolito nel 1863. O forse stava davvero preparandosi a portare a termine il progetto di Laboulaye per gli Stati Uniti, dove il coccio di vaso avrebbe indicato la liberazione statunitense dagli inglesi.
Le catene scomparse
Dopo l’estate del 1870 Bartholdi abbandonò i modellini della fellah: i francesi dichiararono guerra alla Prussia, Napoleone III cadde prigioniero. Era la fine dell’impero. La repubblica che sorse al suo posto si mobilitò per frenare l’ulteriore avanzata tedesca. Ma fu tutto vano. I francesi vennero sconfitti e Bartholdi partì per gli Stati Uniti.
A New York lo aspettava una doccia fredda. Di fronte alla fellah (che nel frattempo Bartholdi aveva rivestito di panni romani), i newyorkesi si chiusero in un silenzio imbarazzato. Ma lui non si scoraggiò: viaggiò in lungo e in largo per il Paese, fino a quando, a Filadelfia, qualcuno s’interessò al progetto. In città stavano cominciando allora i preparativi per l’Esposizione universale del 1876, un evento che avrebbe coinciso con i festeggiamenti per il centenario dell’indipendenza statunitense. Gli organizzatori gli chiesero se sarebbe stato disposto a offrire la statua alla città. Bartholdi temporeggiò perché sognava di collocarla nel porto di New York, ma non voleva farsi sfuggire un’occasione preziosa. Intuiva infatti che gli imprenditori francesi e statunitensi interessati a incontrarsi all’Esposizione del 1876 avrebbero avuto più motivi di chiunque altro per finanziare una statua che immortalava l’amicizia tra i due Paesi.
La statua è rivolta verso l’Europa e il piedistallo è posto al centro di un’antica fortificazione con il perimetro a stella, Fort Wood
La campagna per sponsorizzare “il monumento dell’indipendenza” (come veniva chiamata allora la statua della Libertà) cominciò il 6 novembre 1875 con una cena solenne nel parigino Hôtel du Louvre. Al centro della sala, tutta decorata di simboli massonici (stelle di David, fiaccole e mani che si stringevano) la statua serbava delle sorprese: vestita da matrona romana, indossava una corona a raggi, mentre il coccio di vaso (che in una versione intermedia Bartholdi aveva sostituito con una catena spezzata) era sparito dalla mano sinistra. Al suo posto stavano le tavole della Dichiarazione d’indipendenza. Una catena spezzata s’intravedeva a stento ai suoi piedi.
La statua modulare
Reso più moderato (e dunque più gradito agli statunitensi), il modello della statua era pronto. L’industriale nazionalista e antibritannico Pierre-Eugène Secrétan si offrì di fornire tutto il rame (che si sarebbe procurato al di fuori del mercato britannico) necessario a costruire la statua; città produttrici di beni di lusso e vini da esportare negli Stati Uniti contribuirono all’impresa inviando dai duecentocinquanta ai mille franchi ciascuna. E mentre gli imprenditori inviavano assegni a Bartholdi e ai suoi collaboratori, l’architetto si rivolgeva alla ditta Eiffel et Cie, celebre per la costruzione di ponti ferroviari ad arco. Eiffel assegnò il lavoro al socio Maurice Koechlin, il quale studiò una struttura simile ai piloni sui quali poggiava il viadotto di Garabit sul fiume Truyère, ultimo nato della compagnia.
Partendo dal modello esposto la sera del 1875 e attraverso una serie d’ingrandimenti progressivi, Bartholdi ottenne calchi colossali del corpo della statua. Poi vi si arrampicò sopra con i suoi uomini per battervi a mano strati roventi di rame prima d’inchiodarli uno all’altro e ancorarli al pilone di Koechlin.
Il rivestimento in rame fu prodotto a Parigi dal laboratorio Monduit, Gaget, Gauthier et Cie: trecento pezzi per un peso totale di 800mila chili
Ciononostante, i lavori procedevano a rilento. Per la grande festa di Filadelfia era pronto solo il braccio con la torcia. Bartholdi lo inviò e il successo fu tale che Filadelfia chiese con sempre maggiore insistenza di avere il monumento quando fosse stato completato a Parigi. I newyorkesi, che avevano procrastinato sino ad allora, si decisero ad agire. L’iniziativa passò nelle mani di alcune personalità eminenti di New York che erano state coinvolte nell’organizzazione dell’Esposizione francese del 1878, dove Bartholdi contava ora di presentare la testa e il busto della statua. Si trattava di sfruttare ancora una volta la forza d’urto dell’evento e di attingere alle reti degli imprenditori che vi avrebbero partecipato. Ma che fare dopo la fine dell’Esposizione?
Gli statunitensi avevano preso l’impegno di costruire il piedistallo e ne avevano affidato la progettazione all’architetto Richard Morris Hunt. Ciononostante, alla fine del l’anno 1878 non vi erano fondi sufficienti a procedere e l’opinione pubblica era fredda rispetto al progetto. Le cose cambiarono nel 1883, quando il democratico di origini ungheresi Joseph Pulitzer lanciò una campagna sul proprio giornale, il New York World, dove rappresentò Lady Liberty come una ragazzona sorridente e collegò il suo destino a quello del cittadino statunitense comune, sempre più spesso di origini straniere.
In realtà, come i newyorkesi si accorsero quando la nave Isère scaricò i pezzi della statua a Bedloe’s Island il 17 giugno 1885, essa aveva un viso severo, quasi burbero. Ma era pur sempre un’immigrata, un’esule europea. Forse per questo, una volta costruito il piedistallo e dopo avervi issato la statua pezzo dopo pezzo, gli statunitensi si dimenticarono di lei. Sino al 1916, quando la sua provenienza francese contribuì a farne un simbolo importante delle campagne statunitensi in Europa. Ancora oggi la statua rimane una figlia del vecchio continente.