Bisogna sapere che un tempo in Europa c’era una confusione assordante di dialetti derivati dal latino che, a poco a poco si sono organizzati in diverse lingue – francese, portoghese, spagnolo, italiano.
In Francia, in Portogallo e in Spagna il dialetto della città più importante è diventato la lingua dell’intero Paese. Quello che noi oggi chiamiamo francese deriva dal dialetto parigino medievale. Il portoghese è il dialetto di Lisbona. Lo spagnolo è essenzialmente madrileno. È la vittoria delle capitali.
Per l’Italia è andata diversamente. L’Italia non è stata un Paese unito. Non c’è da meravigliarsi, allora, che per secoli gli italiani abbiano scritto e parlato in dialetti tanto diversi da risultare reciprocamente incomprensibili. Nel XVI secolo, alcuni letterati italiani si sono riuniti e hanno deciso che era un’assurdità. Così con un procedimento che non ha eguali in Europa, hanno scelto il migliore tra tutti i dialetti locali e l’hanno eletto a lingua ufficiale. Per trovarlo sono dovuti tornare indietro di duecento anni, fino alla Firenze di Dante Alighieri.
Nessuna lingua europea ha un’ascendenza altrettanto nobile.
E forse nessuna lingua più di questo italiano fiorentino è mai stata concepita in una forma così adatta a esprimere le emozioni umane né arricchita dai contributi di un poeta tanto geniale.
«Chi non ha mai sentito il canto italiano, non sa cosa sia la musica» disse il filosofo tedesco Goethe. John Keats sperava che l’italiano sostituisse il francese nel sistema scolastico perché la trovava la lingua più bella e musicale di tutte. Thomas Mann invece scrisse: «Non c’è dubbio che gli angeli nel cielo parlino italiano».