Impossibile non conoscerla: la Nascita di Venere (1485 ca., Firenze, Uffizi) è una delle opere più ammirate ed emblematiche del Rinascimento italiano. Eppure, ciò che oggi sappiamo del capolavoro di Sandro Botticelli è davvero poco paragonato alla fama che l’accompagna.
Un alone di mistero avvolge infatti la tela: data di realizzazione, committenza e contenuto sono ancora dubbi.
Persino il titolo è impreciso.
Ma nulla di tutto questo ne sminuisce il fascino, anzi! Ripercorriamo insieme le informazioni che abbiamo per provare a ricostruirne la genesi e il significato.
Iconografia e possibili fonti d’ispirazione
Chiamata così nell’Ottocento, la Nascita di Venere non raffigura davvero l’origine della dea. Secondo una diffusa versione del mito, raccontata anche da Esiodo nella Teogonia, Venere sarebbe nata, già donna, dal contatto tra l’acqua del mare e i testicoli del dio del Cielo, Urano, evirato.
Quella che vediamo nella tela fiorentina, però, non è una Afrodite Anadyomene, ovvero che sorge dall’acqua, ma una Venere che veleggia verso la terraferma, traghettata dalla valva di una conchiglia. Attributo della dea fin dall’antichità, la conchiglia è presente in numerose sue raffigurazioni e in più forme: di dimensioni più ridotte, portata in mano o avvicinata al ventre.
La Venere di Botticelli appare nuda e disadorna. Si copre il pube con una ciocca di capelli raccolti nella mano sinistra, mentre poggia la destra sul seno. Un modello iconografico detto della Pudica probabilmente noto all’artista per la sua conoscenza della scultura classica.
Già nella seconda metà del Trecento, infatti, Benvenuto Rambaldo da Imola riferisce che “in Fiorenza ed in casa privata (era) una statua meravigliosamente bella di Venere ornata come in antico: nuda teneva la mano sinistra piegata, coprendo le parti del pudore e coll’altra più alzata copriva il seno. Dicevasi per questa statua opera di Policleto”.
Non sappiamo che fine abbia fatto la Venere fiorentina, ma la stessa posa si può vedere nella Venere de’ Medici (fine II sec. a.C. – inizi I sec. a.C.) alla Galleria degli Uffizi e nella Venere Capitolina (I-II sec. d.C.), ai Musei Capitolini di Roma, ma anche nella Prudenza di Giovanni Pisano nel Pergamo di Pisa (1302-1311) e nell’Eva di Masaccio (1425, Firenze, Santa Maria del Carmine), a conferma della sua diffusione.
Rispetto alle altre, la Venere di Botticelli è però ancora più sinuosa. Il corpo appare fortemente inclinato verso (la sua) sinistra: le spalle scese, il braccio allungato sul fianco e la testa reclinata ne accentuano la flessuosità. Una scelta in linea con quanto prescritto nel De Pictura da Leon Battista Alberti1, che peraltro suggeriva di inserire anche “la faccia di Zefiro o Austro, che soffi entro i nugoli ad un punto dell’istoria verso la contraria parte”.
Questa indicazione aiuta a identificare la figura maschile in alto a sinistra: potrebbe trattarsi di Zefiro, il vento della mitologia greca che, soprattutto in primavera, soffia da ponente; avvinghiata a lui, Aura oppure Iris. Un’altra interpretazione vede questa coppia alata come Amore e Psiche, secondo un tema ricorrente nei bassorilievi dei sarcofagi romani.
Anche la giovane donna che accorre a porgere il manto fiorito alla dea pone qualche dubbio. Oggi si tende a riconoscere in lei l’Ora della Primavera. Tuttavia non mancano, tra gli esperti, riferimenti a una delle Grazie o a Peito, comunemente descritte o rappresentate nelle fonti antiche mentre accompagnano Afrodite nascente.
I fiori, e in particolare il mirto (simbolo di rinnovamento) e le rose (nate con la dea), sono significativi, ma non aiutano a dirimere la questione, poiché compatibili con tutte queste alternative. Alle spalle della fanciulla, si snoda la costa, fino all’orizzonte. Lo sfondo, dominato dal paesaggio marino, è occupato sulla destra da un boschetto di aranci, possibile richiamo ai Medici (erano chiamate infatti mala medica, pianta medica), tra i committenti papabili dell’opera.
Oggi gli studiosi sono concordi nel datare la Nascita di Venere intorno al 1485, ovvero dopo il soggiorno romano di Botticelli e dopo la realizzazione della Primavera (1480, Firenze, Uffizi), opera alla quale è indissolubilmente legata.
La più antica e precisa descrizione che documenta la Nascita di Venere è offerta da Vasari, che nel 1550 così scrive nelle sue Vite2: “Per la città, in diverse case (Botticelli) fece tondi di sua mano, e femmine ignude assai; delle quali oggi ancora a Castello, villa del Duca Cosimo, sono due quadri figuranti, l’uno, Venere che nasce, e quelle aure e venti che la fanno venire in terra con gli Amori; e così un’altra Venere, che le Grazie la fioriscono, dinotando la Primavera; le quali da lui con grazia si veggono espresse”.
Dunque a metà del Cinquecento, Vasari vede insieme la Venere e la Primavera presso la dimora di Castello, allora proprietà di Cosimo I de’ Medici.
Ai tempi della loro realizzazione, però, la villa apparteneva a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici (detto il Popolano), che nel 1477 l’aveva acquistata dal più celebre e potente cugino Lorenzo il Magnifico.
Perciò, per quanto sia plausibile che la Nascita di Venere sia stata richiesta direttamente da Lorenzo di Pierfrancesco per la villa di Castello, non possiamo escludere con certezza che sia giunta qui solo più tardi da una diversa committenza.
In ogni caso, gli studiosi hanno rilevato come le tinte fredde, quasi pastellate, della tela – insieme alle sue dimensioni imponenti (172,5 x 278,5 cm) – la rendano più simile a una pittura parietale. In altre parole, la Venere di Botticelli doveva simulare un affresco, collocato probabilmente a non troppa distanza dal pavimento.
Comunque sia, dopo Vasari, la tela viene citata nell’inventario della villa del 1589 e in tutti i successivi fino al 1761, sempre accompagnata da una cornice attualmente scomparsa, per poi giungere agli Uffizi nel 1815.
Il significato della Nascita di Venere
Primavera e Nascita di Venere sono legate non solo perché viste insieme da Vasari o perché frutto del medesimo artista, ma perché accomunate da uno stesso programma ideologico.
Infatti, nonostante le differenze di formato, tecnica e supporto (la Primavera è dipinta su tavola, mentre la Venere è una tela), secondo alcuni esperti entrambe si rifanno al neoplatonismo, dottrina filosofica di Marsilio Ficino, intellettuale attivo alla corte medicea.
In una lettera scritta nel 1477 al giovane Lorenzo di Pierfrancesco, Ficino esorta il suo discepolo a seguire le virtù dell’Humanitas incarnata da Venere, simbolo di amore e bellezza spirituali. La nudità della dea, lungi dall’avere un carattere erotico, sarebbe dunque il tramite della contemplazione intellettuale e divina. Una spiegazione accreditata e che tuttavia non nega quella “elusività del significato” attribuita ai due dipinti da Ernst H. Gombrich – tra gli autori di questa teoria.
Anche Erwin Panofsky è convinto che le opere rappresentino le due visioni dell’amore neoplatonico: spirituale (la Nascita di Venere) e terreno (la Primavera), e che come tali fossero volute da Lorenzo di Pierfrancesco. Eppure Panofsky riconosce che tutte le letture critiche finiscono per essere complementari più che alternative, contribuendo a esaltare il fascino di questi capolavori tuttora indecifrati.
Nel 1987 si è concluso il restauro della Nascita di Venere, condotto magistralmente da Alfio Del Serra. Un’attività volta a migliorare le condizioni di conservazione del dipinto e a ripristinare il più possibile l’aspetto originale, attenuando gli effetti del tempo e dei maldestri interventi successivi. Il pubblico ha così potuto apprezzare meglio l’armonia compositiva, i colori e il tratto sottile ed elegante caratteristico di Botticelli, godendo appieno dell’opera.
Alcuni aspetti curiosi sono inaspettatamente emersi durante le analisi di riflettografia infrarossa, rivelando la presenza di correzioni, di natura stilistica, nella fase preparatoria del dipinto: modifiche alla dimensione degli occhi della Venere e del busto di Zefiro. Il ripensamento più importante, però, riguarda il generale dinamismo della scena che, secondo il disegno iniziale, avrebbe dovuto apparire molto meno movimentata. Le gote del dio del vento appaiono meno piene, il manto portato dalla fanciulla meno gonfio e i capelli di Venere meno scomposti. Quest’ultimo dettaglio lascia pensare che Botticelli, nella fase conclusiva del dipinto, possa averlo rivisto anche perché influenzato dal già citato scritto di Alberti, che raccomandava appunto di raffigurare i capelli mossi in ogni direzione dal vento.
Ma, ancora una volta, siamo di fronte a un’ipotesi. Una condizione paradossale se pensiamo che riguarda una delle opere più importanti del Rinascimento italiano, detentrice peraltro anche di un altro primato: la Nascita di Venere è infatti il primo esempio esistente in Toscana di pittura su tela di grandi dimensioni.